1. Sono ormai passati 15 anni da quando si è svolto il referendum sull’acqua pubblica e dal suo esito straordinario. Nel 2011 il 54% dei cittadini italiani si recarono alle urne e più del 90% di Sì (dunque la maggioranza assoluta del corpo elettorale) sancirono la vittoria dei quesiti referendari che indicavano la scelta della ripubblicizzazione del servizio idrico e dell’abrogazione dei profitti garantiti sull’acqua (la cosiddetta “remunerazione del capitale”).

Molta acqua è passata sotto i ponti da allora, compreso il fatto che quel risultato è stato largamente disatteso e contraddetto: la remunerazione del capitale è stata riconfermata semplicemente cambiando denominazione – diventata riconoscimento degli oneri finanziari, che tuttora assommano a circa il 5-6% del capitale investito, solo un pò meno del 7% dell’epoca prerefendaria-, mentre la ripubblicizzazione è rimasta, a parte limitate eccezioni, lettera morta, anzi la privatizzazione del servizio idrico è andata avanti. Certo, non con lo stesso ritmo dei primi anni Duemila e in ciò sta il risultato concreto più significativo del referendum, visto che, senza il pronunciamento referendario, alla fine del 2011 tutto il servizio idrico sarebbe stato consegnato ai privati. A questa violazione dell’esito referendario hanno, in misura diversa, contribuito tutti i governi che si sono succeduti dal 2011 ad oggi, favorendo l’opzione di consolidare il ruolo delle grandi multiutility quotate in Borsa (Iren, A2A, Hera e Acea), che di fatto hanno costituito il “braccio armato” di quest’operazione.

2. In ogni caso, le ragioni che guardano all’idea di trattare l’acqua come bene comune e alla scelta di ripubblicizzare il servizio idrico mantengono la loro validità, anzi, per certi versi, si sono rafforzate, alla luce delle problematiche emerse in questi ultimi anni. Intanto, non si può che ripartire dal riaffermare che l’acqua è bene comune per eccellenza. Bene comune nel senso che essi sono quelli che appartengono “ a tutti e nessuno”, quelli su cui si fonda la convivenza umana e sociale, che garantiscono diritti fondamentali e universali. Poi, l’acqua è risorsa essenziale per la vita, limitata in natura, da preservare necessariamente per le future generazioni. Già a partire da qui è evidente che essa, e la sua gestione, non può essere consegnata al mercato e tantomeno alla finanza e alla Borsa. Intanto, perché generare profitto e speculazione finanziaria sui beni comuni entra in contraddizione totale con la loro natura e finalità, quella appunto di renderli accessibili e garantiti a tutti – e ciò non può essere liquidato dicendo che è il prodotto di una visione “ideologica” quando, invece, proviene da un’idea profonda di modello di società solidale. Inoltre, un bene comune non può essere regolato dalla logica della domanda e dell’offerta, che, ancor più su una risorsa limitata, determina un prezzo sulla base della sua scarsità, incorporando la logica del profitto, producendo disuguaglianze inaccettabili e favorendo il suo accapparamento. Che è alla base di forti conflitti, anche armati, che si stanno sviluppando nel mondo. Tutto ciò è ulteriormente amplificato dal fatto che la gestione del servizio idrico è inevitabilmente svolta sotto la modalità di monopolio naturale, facendo sì che il profitto che si ricava da essa diventa profitto garantito ai soggetti che lo erogano.

Anche solo da queste premesse, risulta chiaro che solo una gestione pubblica e partecipata risponde all’esigenza di gestire in modo utile i servizi che attengono ai beni comuni, a partire da quello idrico. Al contrario le gestioni private o miste pubblico-private si contraddistinguono per mettere al primo posto l’obiettivo di produrre profitti. Ancora più eclatante è il caso delle grandi multiutility quotate in Borsa, il cui orientamento subisce un ulteriore curvatura verso la finanziarizzazione, dovendo, prima di tutto, assicurare un andamento positivo del corso azionario, su cui si basa l’imperativo della massimizzazione dei profitti e della distribuzione di dividendi ai soci pubblici e privati. Che è la vera cifra della loro gestione, che si rivela essere alternativa a quella di produrre un servizio pubblico efficace ed efficiente. Basta guardare ai risultati dello studio sui bilanci delle 4 grandi multiutility svolto negli anni passati dal Foum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, dal quale si evince che Iren, A2A, Hera e Acea, nel decennio che va dal 2010 al 2019, in termini cumulati e per tutti i servizi che erogano (non solo quello idrico, ma anche quello dei rifiuti, della distribuzione del gas e dell’energia elettrica), hanno realizzato utili per 5,9 miliardi di € e distribuito dividendi per circa 3 miliardi!

2. Esemplificazioni molto chiare di quest’incompatibilità tra gestione di natura privatistica ed affermazione del ruolo di beni comuni le troviamo nel fatto che occorre guardare come punto prioritario alla sostenibilità ambientale della gestione dell’acqua. Il cambiamento climatico, dovuto al surriscaldamento del pianeta, è lì a dirci quanto, a differenza del passato, questo tema sia ormai divenuto imprescindibile per quanto riguarda la salvaguardia e la gestione dell’acqua. Gli studi scientifici più accreditati – assieme ai risultati molto discutibili cui sono arrivate le varie COP sinora svolte- parlano del fatto che nei prossimi 5 anni si supererà il limite critico dell’innalzamento della temperatura di 1,5° centigradi fissato con la Conferenza di Parigi del 2015 e che, invece, le tendenze in corso segnalano che, senza un’adeguata inversione di rotta, entro la fine del secolo l’aumento della temperatura del pianeta rischia di arrivare a 2,5°. E’ sotto gli occhi di tutti che ciò sta già determinando l’alternarsi, sempre più violento, di fenomeni siccitosi e alluvionali, il progressivo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento del livello dei mari, più in generale una vera e propria crisi idrica che interessa tutto il globo. Basta pensare che, come rileva la Convenzione delle Nazioni Unite per combattere la desertificazione, “entro il 2050 la siccità potrebbe colpire più di tre quarti della popolazione mondiale e si stima che 4,8-5,7 miliardi di persone vivranno in aree con scarsità d’acqua per almeno un mese all’anno, rispetto ai 3,6 miliardi di oggi. fino a 216 milioni di persone potrebbero essere costrette a migrare entro il 2050, in gran parte a causa della siccità in combinazione con altri fattori come calo della produttività delle colture, innalzamento del livello del mare e sovrappopolazione”. E’ evidente, dunque, che si tratta di mettere in campo, a tutti i livelli, azioni e iniziative finalizzate a tutelare e salvaguardare l’acqua, la sua qualità e un utilizzo capace di risparmiarla. In questo senso, oltre alle scelte che possono portare a contrastare il cambiamento climatico, in primo luogo l’abbandono delle fonti fossili per orientarsi verso le fonti rinnovabili, non sono più rinviabili politiche specifiche per l’acqua. Sotto questo grande titolo, sono comprese le scelte che guardano al riassetto idrogeologico, all’eliminazione dei fattori inquinanti e nocivi attualmente presenti, al potenziamento della depurazione e, soprattutto, alla diminuzione dei consumi sia riducendo fortemente le perdite di rete sia grazie alla realizzazione di reti duali che ottimizzino il riciclo dell’acqua piovana per gli usi meno esigenti, che attualmente rappresentano il 40/50% dell’acqua distribuita. Per quanto riguarda in particolare la dispersione idrica, che nel nostro Paese si aggira attorno al 40% dell’acqua immessa in rete, bisogna costruire un vero e proprio Piano per la ristrutturazione delle reti idriche, ben al di là degli interventi insufficienti messi in campo con il PNRR. Questa scelta, come le altre richiamate sopra, non è più rinviabile e passa necessariamente attraverso l’utilizzo di risorse pubbliche (oltre che su un prelievo dei profitti delle aziende del settore), visto che i soggetti di natura privatistica non sono interessati a tale operazione, a riprova del fatto che sono orientati ad altre finalità.

3. Un ragionamento analogo vale per le finalità sociali che dovrebbe perseguire il servizio idrico. Ciò si traduce in indirizzi che, oltre al risparmio, privilegino l’opzione di avere tariffe basse, salvaguardano il minimo vitale ( 50litri/giorno ) che dovrebbe essere gratuito, e di incrementare gli investimenti. L’esigenza di arrivare a tariffe contenute, visto che di fatto costituiscono una sorta di salario sociale, comporta una seria inversione di tendenza sia rispetto a come essa è costruita (qui torna il tema di annullare la remunerazione del capitale, ma anche della copertura di almeno una parte degli investimenti tramite la fiscalità generale e la finanza pubblica), sia rispetto a quello che è successo negli ultimi decenni, che hanno visto un suo forte innalzamento, tanto che essa inizia ad incidere in modo significativo sul reddito delle famiglie. Dall’analisi effettuata da Cittadinanzattiva emerge che nel 2023 la spesa media per la famiglia tipo individuata, composta da 3 persone e calcolata sul consumo di 182 metri cubi annui, è stata pari a 478 € , pari a 2,62 €/mc, con una variazione in aumento del 4% rispetto al 2022 e del 17,7% rispetto al 2019.

Invece, nel suo rapporto 2012, con dati riferiti al 2011, la spesa annua per una famiglia media composta da 3 persone con 2011 consumo annuo di 192 metri cubi di acqua (parametro di consumo medio assunto sempre dai dati Istat dell’epoca) è risultata essere di 290 € annui. Il che significa che , ricostruendo il costo del 2011

con un riferimento ad un consumo medio di 182 mc annui (pari dunque a 274 ), nel periodo 2011-2023 le tariffe medie sono cresciute del 74,4% a fronte di un’inflazione del 25.8%, circa 3 volte tanto! In più, le differenze territoriali tra le tariffe dove sono presenti gestori pubblici “in house” e quelli misti pubblico-privato evidenziano che la privatizzazione del servizio idrico ha comportato l’incremento delle forbice tariffaria tra questi soggetti e una crescita forte delle stesse dove la gestione è appunto affidata a soggetti misti pubblico-privati. Su questa base, peraltro,- lo diciamo come inciso- il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua ha promosso ultimamente un ricorso presso la CEDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) per la violazione dell’esito referendario del 2011.

Non molto dissimile è la situazione relativa agli investimenti nel servizio idrico, che rappresentano una componente fondamentale per garantire livelli di efficacia adeguati. Negli ultimi anni essi si sono accresciuti in una misura non banale: secondo il Blue Book 2025 (pubblicazione annuale del Centro studi di Utilitalia, l’Associazione delle imprese del settore) siamo vicini a circa 65 €/abitanti/anno, che. però, è ancora distante dalla media europea di circa 90 €/abitanti/anno. Soprattuto va considerato che l’aumento degli investimenti che si è realizzato è dovuto, in buona sostanza, agli aumenti tariffari e alla spesa proveniente dal PNRR, per cui i contributi pubblici passano da 17 €/abitante del 2021 a 33 €/abitante del 2025. A riprova del fatto che la logica della privatizzazione scarica sugli utenti e sull’intervento pubblico il finanziamento degli investimenti, che non esiste nessun rischio di impresa in proposito, anzi alle imprese viene garantito un profitto certo.

4. Esiste, infine, anche una questione di democrazia molto seria nella gestione del servizio idrico, intendendo per democrazia la possibilità per i cittadini di intervenire nelle decisioni più rilevanti che si determinano. In questo senso, non faccio tanto riferimento al fatto, pure molto significativo e inaccettabile, che si è dato vita a d un vero e proprio “vulnus democratico” nel momento in cui non si è rispettata la volontà espressa con i referendum del 2011, quanto piuttosto a due dati strutturali che accompagnano la curvatura privatistica del servizio idrico. Il primo è che, man mano che si accrescono le dimensioni aziendali – fenomeno tipico delle grandi multitutility, troppo spesso contrabbandato come elemento sinonimo di efficienza-, in realtà le sedi decisionali si spostano sempre più lontano dai territori e dalla possibilità di intervento/controllo da parte dei cittadini. Il secondo è che la definizione del metodo tariffario, che viene sì applicato negli Ambiti territoriali Ottimali, è stata demandata all’Autorità nazionale ARERA (l’Autorità di Regolazione per Energia, Reti e Ambiente), che svolge una funzione tutt’altro che indipendente e invece molto attenta agli interessi dei soggetti gestori. Soprattutto, però, nel momento in cui il metodo tariffario è stato sottratto al Ministero competente, si è determinata una situazione per cui esso non solo è fuori dal raggio di intervento dei cittadini, ma persino dello stesso controllo parlamentare. Detto in altri termini, è parte integrante di una gestione efficace del servizio idrico il tema del ruolo decisionale dei cittadini/utenti – e questo vale anche per la forma gestionale delle SpA a totale capitale pubblico, l’unica rimasta in capo al pubblico tra le varie forme di gestione: non a caso parliamo della necessità di costruire una gestione pubblica partecipata, pensando a meccanismi appositi e strutturati con i quali cittadini, lavoratori e i loro soggetti di rappresentanza possano sul serio decidere sugli interventi di fondo di un servizio che riguarda i beni comuni, com’è appunto quello idrico.

RIPUBBLICIZZARE IL SERVIZIO IDRICO È POSSIBILE ANCHE IN EMILIA-ROMAGNA. SI PUO’ INIZIARE IN TEMPI BREVI

Di seguito trovate la situazione delle gestioni del Servizio Idrico Integrato in regione. Come si può vedere, alla fine del 2027, sulla base di un provvedimento legislativo “illegale” stabilito nel 2021 dalla Regione Emilia-Romagna, scadono le concessioni in provincia di Parma, Modena, Bologna e Ferrara. Alla fine del 2028 scadono anche quelle relative alla provincia di Ravenna e Forlì-Cesena. Com’è noto, la scadenza delle concessioni rappresenta il momento più utile e praticabile per procedere alla ripubblicizzazione del servizio idrico. Si tratta di mettere in campo una forte iniziativa a partire dai territori interessati alla scadenza delle concessioni a breve termine e costruire piani di fattibilità economico- industriale e finanziario che supportino la ripubblicizzazione